A Venezia
Non un soffio solo di echi si perde,
Venezia, di te dai volti, dalle voci,
dalle estatiche immobilità dei pleniluni,
che seppero il mio errare accidentale.
Ho dentro me, per sentirmelo rivivere,
un caldo lembo del tuo approdo di luce
biancorosa, sfumato
dalle nebbie trasparenti, che le cuspidi
quasi irreali tue
corteggiavano nei lenti
silenzi mattutini.
Ho dentro me i riverberi confusi
dei tuoi rii, dei tuoi canti
rappresi nell'aria, specchi di cieli
stellati, i riverberi che ancora
mi dicono antiche certezze di immagini
ambrate, leggere come visioni di attimi
inafferrabili, e s'indorano tutte
di secoli come di gemme predate al nulla.
Venivano falene di suoni dai tuoi
campielli assopiti, e leggermente
si libravano in volute placide
sui sommessi borbottii delle risacche:
sopravviveva tenace la tua notturna
musica, e io sognavo che il mondo
così potesse eternarsi nell'intatto
permanere di armonie.
Seguivo dalla sponda
verdeggiante di salmastro
un volo ideale di tutto il visibile
intorno, che i sensi accendeva
e non violentava, dalle viscere tue
di marmo e di colore:
tutto un volo silenzioso a ritmo
vivaldiano, dai toni riflessi
di Giambellino e di Tiepolo,
che si scioglieva nelle tue
madonne policrome, come le onde
lagunari si scioglievano alle graduate
battigie.
E avrei bramato quel sonno
di te pacato, che hai chiuso gli occhi
forse al passare delle tempeste
della storia, per serbare così
riflessi incorruttibili d'aria,
che non conobbe forse la morte
dell'anima.
Ma eri una magica città per me,
liberata dall'enigma dei tempi.
L'altra in te moriva come tutte
le febbri evanescenti dell'uomo,
e io non la vidi morire. Io sempre
stringo di te la superstite armonia
senza grigi confini,
che mi fermò un'ora smemorata
nel tuo incantesimo sereno. Sei
un frammento di me, Venezia, creduto
infantilmente vero.
E i cieli diversi, dove le ore vane
imperversano, non distruggono per me
l'approdo tuo di luce e di musica
nei lenti silenzi
mattutini.
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Davanti al Monte Rosa
Come ai fianchi della montagna
batte il vento che ci ignora,
una povera aria stinta, così ci avvolge
quaggiù, non si sa se per gioco ozioso
o per diabolica beffa.
Ride ignaro il dirupo cristallino
ai riflessi del sole fresco
e tace là in alto, immersa
nella superba tranquillità
del cielo di cobalto la cima
corazzata di azzurri ghiacciai.
Sanno le vie misteriose
i larici e le querce che l'hanno fissata
nelle crescite loro selvagge
con sentimenti di verde silenzio.
L'acqua scende trasparente
come un'ala in sogno
di roccia in roccia
e fende ritmica il nostro
avvelenato torpore che finge
d'essere un movimento. Tutto
ci ignora. Noi siamo
quassù appena un'ombra malata
che esplora impaurita:
emersi per caso
dal labirinto delle basse valli,
guardiamo lo scherno titanico
della purezza eccelsa
della vetta,
che ci chiede forse chi siamo,
per la nostra illusione ottica,
e ci tollera appena un attimo
qui presenti coi nostri sordidi
ingombri. Il vento
velocemente spazza via
le nostre tracce labili.
Tutto si inalba ancora
come per millenni spaziali
di cristallo, e ridiventa
l'universo vergine, senza storia,
sciolto nella sua magica
indifferenza.
Anche forse
con questa nostra labilità
consapevole, con questa
nostra paura del limite.
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Dove sei rimasto
Un passo cauto verso l'abisso
di luce e d'aria:
è il passo lento di noi vivi
in un'ora crepuscolare.
Di noi che chiediamo
in solitudini afone
dove è rimasto l'uomo. Di noi
che uomini appena
di una sottorazza degenere siamo,
un'ansietà di recupero invade
l'aria e la luce,
dove ancora respiriamo,
in penombre mute
del giorno cadente.
Dove sei rimasto,
primogenito puro?
Forse dietro ogni siepe, ogni forra
allo stato brado, dietro
ogni campo fumante ancora
di aurorali fatiche?
Non dietro gli obelischi
e le statue fredde
dei presunti eroi che splendono
di falsa luce,
insanguinati di ogni genocidio.
La tua primitiva
immagine tace
da un tempo incalcolabile, tace
la tua parola, gemella
del fruscio dell'aria tra gli alberi,
il tuo gesto identico al balzo
argentino delle sorgenti.
Cieco di sonno o di oblio
è il tuo sguardi schietto
dei primordi ormai, quell'antico
tuo brillare di faccia aperta
in cui l'infocata luce
del cielo si specchiava. Sentiamo
cori profondi in sordina
echi di te che serpeggiano
come sotterranee lingue di fiamma
per lo spazio vergine
di un'altra storia.
E a quel richiamo timido ancora
qualcuno di noi
sogna miti infantili,
senza incantarsi,
senza deridersi.
E si risente tutto in te
vibrare di fervida rinascenza,
come all'alba a te nota
di allora.
Respirando l'aria
d'un futuro vero.
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Traccia invisibile
Amori delle pietre
con la luce, suoni
di foglie e d'erbe
al passare del vento
per il pendio:
e viene l'uomo
e lascia
con suono, poi, solo di parole
la sua gioia
il suo dolore
la sua fatica.
Dove andremo
per te, via limpida?
Consumato tutto il giorno
ormai che attendevamo
nella pace del vento
di sera.
Soltanto resta
un'esile spirale
di voci,
confusamente nello spazio
erratiche.
E il mondo è sempre
in una grande attesa.
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