INCONTRO CON LA POESIA - DI VITTORIO CAMPANELLA.Discorso introduttivo di Marta Fusai POESIE Dove sei rimasto, primogenito puro?
Incontro con la poesia di Vittorio Campanella 8 novembre 2008
Discorso introduttivo di Marta Fusai
Aprendo il nostro incontro dedicato alla poesia di Vittorio
Campanella, vorrei citare una dedica a me indirizzata nel
lontano 2002: Queste parole, scritte con la grafia tremolante di una persona anziana, ma ancora vitalissima, nella mia copia della raccolta “Uscire dal buio”, racchiudono per me l’anima più autentica dell’uomo e del poeta Vittorio: Vittorio, che non ho avuto la fortuna di avere come insegnante, ma che per me è stato compagno lucido e prezioso nell’indimenticabile esperienza politica di DP, non amava esporsi e, negli ultimi anni, sembrava aver perso la fiducia anche in quella parola poetica che pure lo aveva accompagnato in tutto il suo percorso esistenziale. “Barlumi timidi”, “parole al vento”: così definiva i suoi versi. Ma subito dopo aggiungeva “per sopravvivere moralmente”. Ecco, in questa proposizione finale credo che si riaffacci, pur in maniera dubbiosa e incerta, la speranza: non solo la speranza del poeta, ma anche quella dell’uomo che continua, ostinatamente, a credere nella profonda dignità di ogni essere umano e non si arrende alla solitudine, all’ingiustizia, all’eterna oppressione del più forte sul più debole. Per questo a mio giudizio il testo che in “Uscire dal buio”, una delle raccolte che presentiamo stasera, risulta più rappresentativo è “La strada”, una lunga lirica in cui il ritrovarsi “in un paese di altri come lui” significa la possibilità di salvezza, perché l’approdo ad una dimensione collettiva dell’esistenza è sempre stata particolarmente cara a Vittorio.
Forse per motivi generazionali, la lettura di questa poesia mi
ha subito riportato alla memoria le parole di una famosa canzone
di Gaber, intitolata appunto “la strada”: L’accostamento può sembrare quanto meno azzardato; pure io credo che l’idea di fondo dei due testi sia identica: ”ritornare nella strada” significa, tanto per Vittorio che per Gaber, ritrovare il senso della propria esistenza e della propria funzione di poeti, un senso e una funzione strettamente legati ad una collettività che non si stanca di cercare, come il Don Chisciotte della poesia di Hikmet, “ciò che è bello, vero e giusto” E proprio con i versi di questo poeta vorrei chiudere il mio breve intervento, dedicandoli a lui e ai tanti, preziosi Don Chisciotte che continuano a lottare contro i mulini a vento, nonostante tutto.
sul volume di poesie “IL CIELO HA UN’ALTRA VOCE” edito nel 1962
Vorrei collegarmi alla premessa di Marta Fusai, citando l’affermazione del poeta giapponese Daisaku Ikeda, che ben si adatta alla personalità di Vittorio Campanella: “Lo spirito poetico fa parte dell’impresa umana e permette di percepire l’intimo legame che lega il singolo essere umano a tutti gli altri e all’intero universo: Poeta è chi dà voce a questa realtà interiore. Lo spirito poetico è la leva per l’impegno nella vita”. Indubbiamente lo spirito poetico è stato “la magia del fare” che ha dato forza agli ideali e all’impegno di Vittorio Campanella e gli ha consentito di addentrarsi in uno degli aspetti più complessi della speculazione teorica dell’uomo, quello del rapporto tra uomo e Dio. Tale ricerca ha visto il nostro poeta, negli anni ’60, in compagnia di altre voci autorevoli, quella di Padre David Maria Turoldo, il frate servita che si definiva umilmente “scaricatore del porto di Dio”, nei cui toni Vittorio Campanella si è riconosciuto per alcuni anni, altre laiche e più sporadicamente, ma non meno intensamente indagatrici della presenza del divino. Alludo alle opere poetiche di Mario Luzi e di Alda Merini. L’impresa di Campanella può sembrare velleitaria, destinata a fallire o a perdersi tra limiti e orizzonti indefiniti, oppure a restare imprigionata tra le strettoie dei dogmi religiosi. Vittorio riesce invece a sviluppare, su questa sostanza materica sfuggente e infida, una sorte di POEMA che ricorda la struttura musicale di una sinfonia, in cui i movimenti si alternano, talora armoniosamente, talora quasi contrastanti, con tutte le sfumature e le coloriture degli adagi, andanti, forti, allegretti. Non a caso, dal momento che Vittorio Campanella era un fine conoscitore di musica classica. In quest’opera, a volte magmatica per l’esplodere degli
interrogativi che l’autore fa propri, a volte più accorata e composta in una
sorta di riflessione pacificatrice, si possono distinguere alcuni toni tematici: Ma è arrivato il momento di addentrarci nel colloquio immaginario tra Campanella e Dio. La voce del poeta all’inizio si leva pacata e sembra esprimere un
sentimento di pacificazione e di comunanza con Dio, attraverso e nella natura. In questi versi la fusione tra l’uomo, l’io poetante Vittorio, e
l’essere divino si attua attraverso la sinestesia “s’imporpora di Te la calda
mia vita”; inoltre Dio è “riso effuso” che non lascia il poeta nella solitudine
esistenziale, ma si fa compagno e si fonde con “la voce dei paesi”, mentre il
cammino dell’uomo e della presenza metafisica è sottolineato dalla levità
dell’avverbio “leggermente”: si delinea dunque il tentativo di dare connotati
alla figura divina di Dio come “riso effuso”, oppure “voce” che scende nel cuore
degli uomini, attoniti al cospetto dell’immensità. Se volessimo far nostri i modi della critica strutturalista, potremmo comporre un elenco dei vocaboli più ricorrenti nei testi di Vittorio Campanella e noteremmo che si riferiscono tutti al campo semantico della “parola” e dell’ “ascolto”. Sono infatti: PAROLA, riferita al mezzo usato da Dio per manifestarsi, VERBO, nella sua potenza creativa, in un’ottica biblica. Ancora troviamo PAROLA, riferita questa volta all’uomo e pertanto da intendersi come elemento che unisce l’umanità a Dio. Infine la PAROLA come atto creativo divino e di palesamento all’uomo. Notiamo, infine, che la PAROLA dell’umanità diviene preghiera, ma anche, talora, atto di ribellione titanica, atto di affermazione di sé. Il nostro elenco di vocaboli potrebbe proseguire con: grido, eco risonanza, musica, voce, verbo, coro, tutti riferiti al campo semantico della comunicazione. E’ comunicare con Dio il vero assillo per Campanella, in questa fase poetica. Ma chi è Dio? Per Vittorio Campanella non si arrende alla possibilità che Dio possa essere STATUA MUTA (come non pensare alla divina indifferenza di cui parla Montale?) O che possa essere CAPPA DI ROCCE Il divino è anche essere partecipante e allora si fa corpo infinito che soffre. Ecco che nella sinfonia di Campanella emergono i toni più stridenti e i ritmi
incalzanti. Ed ecco il rifiuto da parte del poeta del Dio degli antichi profeti, “la lontana chimera degli incensi che si confondono con la nebbia del cielo” L’uomo è stato condannato dalla codificazione del divino da parte della Chiesa a credere Dio lontano, mentre per Campanella Dio deve essere universale e condiviso. Si leva allora l’invocazione: Passiamo ora alla “dottrina sociale” di Vittorio Campanella in “Il cielo ha un’altra voce”. Essa è racchiusa nel concetto del “crisma” degli umili. L’uomo, nuovo Prometeo, si appropria del tempo, della storia, della luce,
costruisce e produce e allora Campanella scrive: E ancora il poeta avvalora con questi versi accorati la forza solitaria
dell’umanità: Ma lo sforzo titanico dell’umanità si scontra con l’ingiustizia dei potenti:
leggiamo nella sezione “La valle non ha sole”: Qui il poeta traduce la fatica degli uomini in immagini di fruizione immediata,
tratte dalla vita quotidiana, segnata dalla miseria, delle classi subalterne: Sempre a proposito del pane, non possiamo tralasciare, in questi versi, la
bellissima espressione “sapore d’aria”: Qui non possiamo fare a meno di notare l’artificio poetico al quale Campanella ricorre con la rima interna imperfetta degli ultimi due versi, in cui “oncia”, la briciola di vita degli umili, si tramuta in “orgia”, lo strapotere dei pochi. Il poeta incalza e di nuovo ci imbattiamo in versi drammatici che hanno il tono
di un’invettiva latente: Il dialogo di Campanella con Dio prosegue nella sezione “Tempo di essere”, in
cui l’espressione poetica si fa più strutturata e il tono acquista enfasi,
giustificata dall’incalzare degli interrogativi del poeta. Il colloquio diventa
vano, “tu che rispondi?” è la domanda ricorrente rivolta a Dio sul senso della
vita e della morte. Assistiamo all’alternarsi di “Voce” e “Silenzio” – Il silenzio di Dio; allora il
colloquio si fa impossibile e prelude alla lirica “Al presunto Dio muto” della
raccolta “Uscire dal buio”, della quale vi parlerà Antonio Paghi. Come possiamo concludere questa analisi che non pretende di essere esaustiva, ma
vuole invitare a leggere l’opera di Vittorio Campanella? “Questa raccolta di liriche attirerà su di sé la curiosità interessata del credente e dell’ateo. All’uno e all’altro non riuscirà a dire una sola parola che convinca, sia pure per opposte ragioni: troppo poco mistica per il credente, troppo mistica per l’ateo. E’ la vicenda dell’uomo che opera, lotta, soffre per un destino ancora sconosciuto. E Dio può essere tutto quello che evade da questo limite di assurdità. Il dialogo è dunque con questa parte attiva di noi, riascoltata nel silenzio del suo destino incessante, creduta vera come una divinità.” Quanto a me, come relatrice, mi sento di aggiungere che negli ultimi anni della sua vita Vittorio Campanella ha maturato una visione unitaria e armonica del rapporto tra uomo e natura ed ha messo quasi in ombra la presenza di un’entità divina. Mi piace dunque concludere con i versi del poeta siriano Adonis, risalente agli
anni ’30, che Campanella avrebbe sicuramente apprezzato e forse fatto suoi.
Dove sei rimasto, primogenito puro?
Un passo cauto verso l’abisso
Tu dunque pure ti ostini
Come?
La marea grigia t’assedia
Forse ognuno
E guarirebbe di malesseri ignoti:
Allora in quel fumo
Barlumi scialbi spandono
Un muro d’ombra ti fa invisibile
Resta una rabbia di memorie
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